In questi giorni sono tornato a riflettere sull’Afghanistan.
Ci sono più fattori che mi hanno ristimolato: un po’ il film Selma su Martin Luther King, una chiaccherata franca con una persona che era nel campo militare ad herat e il prossimo progetto di ritornare e completare un lavoro iniziato 2 anni fa e che sta continuando anche senza la mia presenza sul luogo.
Il film mi ha riportato alla mente le difficili dinamiche che ho incontrato andando in Afghanistan e entrando in contatto con l’Ambasciata Italiana, le ONG soprattutto italiane, l’ONU, i militari militari, i servizi segreti italiani, insomma tutte quelle organizzazioni che hanno strutturato sistemi di lavoro e che la mia presenza e modalità d’intervento ha messo profondamente in discussione.
Dal nostro Paese, l’osservazione di tutto ciò è edulcorata o semplicemente concentrata su piccoli dati spettacolisticamente rilevanti, almeno dai media, di un luogo come l’Afghansitan.
Che interesse c’è di un luogo dove le cose vanno bene e come si può guardare il bello di un paese che dal punto di vista occidentale è considerato arretrato, violento, truce, disumano?
Molto poco infatti, le notizie che traggono principalmente l’interesse di un lettore medio sono quelle delle morti, degli sgozzamenti, delle bombe che fanno saltare i bambini, della violenza sulle donne, dell’utilizzo discriminato del potere.
D’altronde anche al cinema siamo abituati a questa “macchina per emozioni”, ad entrare in un cinema apatici e uscire stimolati con almeno 100 stimoli di paura, 30 di gioia, 40 di tristezza, 50 di rabbia, 10 di felicità. L’alchimia emotiva che prende piede maggiormente è quella che ci scuote le viscere e ci fa ampliare l’ascolto di tutta una gamma di reazioni fisiche che ci svegliano da un torpidio creato principamente da noi stessi, sebbene altamente stimolato dalle nostre dinamiche in società: il controllo emozionale. E allora questo “potere”, questa capacità di contrazione e tensione della muscolatura ci rende poco sensibili, quindi sarà necessario, anche se viene fatto più o meno consciamente, una stimolazione emotiva che svegli e lasci emergere la vitalità naturale assopita dell’uomo. La scelta di un alchimia emotiva per stimolare le persone di un film è basata su una concentrazione molto forte e puntuale di stimoli, in due ore siamo bombardati di affetti.
La maggior parte di noi nemmeno se ne rende conto, si gode la stimolazione e basta. Chi invece è un po’ più sensibile si trova ad ascoltare gli effetti immediati della “Macchina Emotiva”. Poi ci sono quelli che oltre alla sensibilità, hanno acquisito delle capacità razionali in cui valutano tutte le conseguenze di questa eccessiva stimolazione su di loro e comprendono anche, oltre ad alcuni benefici, tutti gli effetti a livello organico, neuroscientifico, che portano a una sorta di malattia sociale più che al benessere. Qualcuno si spinge più in là e si trova a riflettere su quanto la nostra società abbia bisogno in maniera omeostatica( o meglio omeodinamica) di queste strumenti per autoregolarsi, per sostenersi e per condurre una vita decente laddove buona parte delle persone vive con una corazza emozionale che ha dovuto costruirsi per limitare i danni, in sostanza per una mancanza di sviluppo neuro-affettivo che possa permettergli di autoregolarsi anche con una minima protezione muscolare.
Parlo del cinema ma voglio arrivare ai media, alla fiducia spesso inconsapevole che poniamo alle notizie che riceviamo in mille maniere.
Per i Media è un po’ diverso, i giornalisti hanno un bisogno sistematico di continuare a stimolare una narrativa di “fatti” le persone, e principalmente i fatti che toccano paura archetipe come quella della morte, o rabbie come quella che avviene nell’invasione( di qualsiasi tipo si tratti) hanno questa forza . Essi debbono, per rendere una notizia d’impatto e per far si che essa si possa espandere ed avere successo, stimolare il sistema nervoso centrale, spesso verso il sistema lotta-fuga(che quando è disfunzionale diventa congelamento) e il sistema limbico.
Che cosa vuol dire ciò?
Significa che noi possiamo stimolare altre persone ad attivarsi o a disattivarsi passando al di là del nostro filtro razionale, cioè possono farci muovere nelle viscere mentre sei seduto sulla sedia, andandoti a punzecchiare il tuo sistema di difesa e sopravvivenza neurologico e autonomo.
Per fare un esempio che rende chiara l’idea, se mentre cammini e magari sei pure soprappensiero e a un certo punto senti un urlo, tutta la tua energia verrà attivata per canalizzarla sul luogo dove senti che proviene quest’urlo. Per un attimo perderai completamente di vista ciò che stai facendo e la tua attenzione totale si rivolgerà nel luogo di provenienza di questo stimolo.
Lo stesso avviene con i media, essi per sopravvivere e competere, hanno bisogno di attirare la tua attenzione verso la notizia e fanno in tutti i modi perché tu molli le tue difese razionali(della neocorteccia) e toccarti nelle viscere. In una realtà come quella attuale dove l’iperstimolazione su tanti aspetti della vita è altissima, come fare per distoglierti da tutto ciò e portarti ad ascoltarti? Urlo.
Che tu proverai rabbia, paura o tristezza poco importa, l’importante è che tu senti e contraendoti fisicamente per effetto di queste emozioni, facendo attivare il cortisolo e in questo modo facendo cadere le tue difese immunitarie porrai attenzione a ciò che dice il tale giornalista o il tal’altro…. Questa è la dinamica emozionale che sta di base alla notizia, che ha un effetto fisico e un influenza mentale a prescindere dalla sua veridicità o meno.
Chi conosce gli effetti fisici delle emozioni, sa anche che le emozioni positive(in senso di benessere e non morale) come la generosità, la gratitudine, la gioia e la serena felicità hanno effetti espansivi e di rilasciamento delle tensioni muscolari generali e che esse ci tengono meno bloccati sulla sedia a pensare e a torcerci per un fatto. Esse quindi hanno meno “forza” da un punto di vista giornalistico, o almeno, essendo molto più bistrattate moralmente e poco accettate societariamente perché considerate erroneamente effimere e private: “valgono meno”.
Per capire ciò che sto dicendo, basta che facciate un test voi stessi. Analizzate la prima pagina di un quotidiano. Scoprirete che il 70 % è composto da articoli che suscitano emozioni negative, il 20% da articoli neutrali e il 10% da articoli positivi( la miscela cambia leggermente ma sostanzialemente è di questo che ci nutrono).
Fatta questa premessa, torniamo all’Afghanistan
Dall’Afghanistan e dai vari Paesi che consideriamo in guerra ci arrivano messaggi di terrore, chi porrebbe il suo interesse nel vedere un contadino felice curarsi una pianta melograno? Quasi nessuno, è un argomento poco interessante e non fa notizia. E’ già un Paese così lontano culturalmente, che ne può importare agli italiani di vedere che in afghanistan ci sono persone oneste e che possono insegnarci qualcosa sulla felicità?
Quando dico che la maggior parte degli studenti universitari che segue i miei corsi sono donne, spesso mi dicono: Ma le donne possono studiare? Pochi infatti sanno che solo nel periodo dei talebani che è durato 5 anni, è stato negato loro lo studio, ma ancora meno le persone sanno che durante quel periodo c’erano le scuole illegali per le donne in casa. Cioè, alcune famiglie facevano scuole nelle case per le donne. C’era un parte della società che ha rischiato la propria vita per permettere lo studio alle proprie mogli e figlie.
Qualcuno ha rischiato la propria vita e quella della sua famiglia per fare studiare delle donne. L’afghano, e in genere i musulmani, vengono visti da noi come degli sfruttatori delle donne.
Conosco alcune di queste persone bellissime che si battono per la corruzione, che si battono per i diritti civili, che continuano a creare tavoli d’incontro nella società civile per la pace. Queste cose però fanno poca notizia.
La nostra capacità(anche dei media) di scambiarci fatti che possano elevare lo spirito basati sulla nobiltà di animo di persone, in culture diverse, si è assopita. Di sottofondo c’è questa domanda…Che cosa potrà mai insegnarci un Afghano?
Neanche 7 anni di vacche magre come questi della crisi, ci hanno aiutato a lasciar andare una supponenza occidentale, integrata nel nostro sistema di educazione. Nelle nostre Università, e cito la Facoltà di Filosofia cui ho avuto modo di osservare da vicino, non c’è posto per le filosofie orientali, africane, aborigene e tante altre visioni che ci potrebbero aiutare a vivere meglio. Siamo così EuroUS centrici che si, c’è qualcosa che arriva da questi Paesi, ma sostanzialmente è debole, di poco valore. Questa è la realtà italiana. Viviamo in un contesto globale così ravvicinato ora che anche le politiche basate sul terrore e sulla lotta all’invasione sono quelle che fanno maggiormente breccia negli istinti. Guardate uno come Salvini…
Dall’Afghanistan le maggiori informazioni che ci arrivano:
- dai media, si concentrano sui fatti dell0 0,0001% della società e che da noi vengono visti come se fosse il 99%.
- Dalla maggior parte delle NGO, che concentrandosi sul disagio, espongono i fatti di disagio e anche loro, pur se alcune di loro con bellissime intenzioni e ottimi risultati, da queste esposizioni debbono suscitare compassione per far si che vengano finanziate le loro missioni.
- Dall’Onu, che deve giustificare i milioni e milioni di euro che vengono spesi dalle casse europee, mostrando le motivazioni che stanno alla base di certe spese e che il loro lavoro è buono e giusto perché la focalizzazione è sulle indegenze.
- Dai piani della Cooperazione Internazionale, che essendo finanziati dai governi devono mostrare alla gente che ci sono bisogni enormi e che stanno facendo di tutto per aiutarli.
- Dalla Nato e tutti gli attori militari, che devono mostrare che stanno facendo bene il loro lavoro bonificando aree di persone putride e giustificando i miliardi di euro investiti.
I media sono finanziati e protetti dai governi, la maggior parte dei giornalisti italiani che arrivano in Afghanistan stanno con i militari, mica girano per le strade incontrando le persone, si muovono con guardie armate, in percorsi stabiliti, in strade tracciate e verso persone note.
La mia non è una critica all’esistenza di queste organizzazioni e ho visto che alcune delle loro dinamiche fanno veramente la differenza. Questa che faccio è una critica di sistema, una critica cioè alla modalita di base, al poco spazio dato alle dinamiche positive che possono migliorare la nostra società, anche egoisticamente parlando.
Da questo si evince che traspare poco delle dinamiche positive di una società, pur nella sua debolezza e fragilità.
Quello che ci manca e di portare maggiormente alla conoscenza di chi vive e lavora “normalmente” nei Paesi occidentali, di ciò che si può imparare da questi Peasi, dalla loro forza di lottare nel disagio, dei loro sforzi per far sì che la loro realtà divenga più pacifica. Questi sforzi ci aiuterebbero a comprendere che questa gente come noi si sforza per creare un mondo migliore, che come noi nelle nostre giornate spinge per creare maggior armonia.
Tutte queste organizzazioni hanno dei vincoli di comunicazione, pochi tra loro possono parlare pubblicamente, hanno delle policy in cui NON devono dire all’esterno, in alcuni casi nemmeno ai loro famigliari, quello che fanno e i risultati delle loro azioni. I successi e gli insuccessi.
Ecco perché quando mi sono trovato ad essere invitato all’Università di Herat come ricercatore indipendente, tutte queste organizzazioni sono entrate in subbuglio.
Ho ricevuto pressioni negative dall’Ambasciata Italiana, dai Servizi Segreti italiani(tranne da una persona), dalle Ong, dalla Cooperazione Italiana, e paradossalmente in maniera minore da alcuni dell’ONU. Mi chiamavano per terrorizzarmi, per farmi andare via. Hanno cercato di minare la fiducia di amici afghani che mi sostenevano e aiutavano.
Mi hanno isolato non invitandomi in vari incontri. Qualcuno ha messo voci in giro dicendo che flirtavo con donne afghane. Qualcuno ha creduto e ha denunciato alle autorità italiane che potevo essere un informatore iraniano, un venduto al governo iraniano. Nessuno si spiegava come potessi avere fiducia in me e degli afghani che mi proteggevano senza avere alle spalle dei poteri forti. Hanno anche pensato di cercare di chiudere i miei corsi in Università. In tutto questo la società civile afghana mi voleva bene, perché finalmente vedevano una persona che viveva normalmente tra loro, come loro, che cammina per strada, che non gira con l’autista, che si fida di loro(chiaramente di alcuni).
Le dinamiche di sicurezza di tutte quelle organizzazioni che ho menzionato si basano sulla diffidenza, sulla sfiducia, da un punto di vista emozionale, sulla paura.E’ Antirazionale ma è così.
Quindi vivere con una famiglia afghana normale come ho fatto io era assurdo per le dinamiche classiche.
Vivere a fianco della moscea con il megafono del mullah a tre metri dal letto era assurdo.
Prendere il risciò per andare in giro era assurdo.
Stare con sole donne studenti in una stanza nei gruppi di terapia era assurdo( e troppo pericoloso per il Governo Italiano).
Andare in piscina con amici afghani era assurdo.Nessuno straniero ad Herat va in una piscina pubblica.
Andare al fiume a fare il picnic il venerdi era assurdo.
Organizzare una conferenza contro la violenza sulle donne con studentesse e professoresse era assurdo(soprattutto se fatto senza soldi).
Andare in una scuola superiore in un ghetto etnico a tenere lezioni sulle emozioni senza protezione armata era assurdo.
Fare counseling psicologico in diretta radio(pure a un mullah) era assurdo.
Girare a piedi per la città era assurdo.
E potrei continuare a citare cose che nessuno faceva o che se venivano organizzate da un Ente di quelli citati di qualsiasi tipo, erano necessari mesi, in alcuni casi anni, di organizzazioni con un sacco di persone coinvolte, sicurezza, politica, soldi, tanti soldi.
Si dicevano arrabbiati: “ questo qui va in giro a fare quello che vuole…” invece io facevo semplicemente quello che sapevo fare, con un sacco di gente che mi aiutava gratuitamente, che in alcuni casi metteva il denaro necessario. Tutto il contrario di quello che succedeva a loro.
Un uomo internazionale tra le persone con più esperienza in quella realtà da più di 10 anni, che vive li da alcuni anni mi disse che avevo messo a soqquadro le dinamiche dell’ONU, che l’ONU per riuscire a fare quello che stavo facendo avrebbe dovuto spendere più di un MILIONE di EURO.
Potete capire le invidie e le ire che mi sono tirato addosso.
Mi hanno informato di incontri in cui ero l’oggetto di discussione e in cui criticavano pesantemente ciò che stavo facendo, e delle dinamiche d’isolamento che hanno messo in atto. Io in qui momenti percepivo le resistenze di tante persone internazionali cui cercavo di entrare in contatto, ma le conferme di questi incontri e delle denuncie le ho avute dopo, in alcuni casi proprio dalle persone che denunciavano il mio operato e che si erano ricredute conoscendomi. Perché molte delle critiche che mi venivano mosse, le facevano senza neanche conoscermi.
Anche nel campo del soccorso umanitario ci sono umani e con loro le invidie, le rabbie e soprattutto le paure.
(*)Ingenuamente avevo messo a soqquadro un meccanismo, come nelle teorie dei giochi matematici: 1- era entrato un giocatore nuovo 2- si basa su un numero di mosse impreviste dagli altri giocatori 3- ha piani di azioni differenti e 4 modifica radicalmente i pay-off(rischia di far modificare anche quelli degli altri).
Quest’ultimo aspetto gioca sulla questione più difficile, mentre gli altri giocatori si sono sempre basati su un equilibrio di interessi dati(evitare di perdere finanziamenti internazionali, politiche economiche e geopolitiche , dipendenze economiche di sistema internazionale, dipendenze economiche dagli altri enti giocatori, dinamiche di attività di comunicazione umanitarie verso il popolo degli stati contribuenti…) il “nuovo giocatore” ha messo in gioco pay-off che non erano contemplati.
Un vero incubo per molti, soprattutto nella fragilità e criticità attuale verso il sistema umanitario internazionale, in cui si sa che più del 50%, in alcuni casi 80% dei soldi che vengono destinati alle attività, vanno nelle mani di chi le attività le esegue o comunque si disperdono nelle organizzazioni per strada, cioè, non arrivano bene a destinazione.
Insomma se tra i miei obiettivi, oltre a quello di fare un bel lavoro(quindi di aiutare le persone a stare meglio), di testare la mia ricerca e di far sì che siano loro stessi ad espandere questo lavoro per far beneficiare quante più persone possibile, c’era quello di comunicare le buone prassi che vengono da qui, le cose che si possono imparare da una cultura antichissima come quella persiana e perché no, anche trovare dei fondi maggiori.
Difficilmente si potrà ripetere una dinamica di così tanto sconquasso, anche perché ripetere un operazione del genere, nella stessa maniera, in un altro contesto e con lo stesso investimento economico che non supera fino ad ora le 20 mila euro(senza averne tratto un guadagno economico), è inimmaginabile. Tuttavia, spero proprio che ciò possa contribuire a mettere in una discussione costruttiva le dinamiche economiche, sociologiche, psicologiche e di sicurezza che sono alla base di un intervento umanitario. Questa modalità d’intervento ha scardinato un meccanismo che in qualche modo sta sfaldandosi e può essere un esempio di riflessione per migliorare quello in vigore e trasformarlo in una maniera più costruttiva.
Il nostro sistema d’intervento ha bisogno di integrare dinamiche positive anche per chi è a casa e che finanzia le attività internazionali pagando le sue tasse, anche senza esserne consapevole. Se riuscissimo a portare indietro quello che si è imparato culturalmente, quello che si può imparare dal sentimento di riscatto di un popolo. Potremmo imparare da quella resilienza, tanto abbiamo dimenticato in un Paese come l’Italia che da pochissimo credito allla forze giovanili rendendole impotenti, perché non sa come motivarle e farle emergere per canalizzarle verso un maggior benessere comunitario.
Tanta bellezza ho incontrato in questo Paese, della fratellanza che mi ha mostrato il popolo afghano, della protezione che mi ha dato, dei rischi che si sono presi per permettrmi di realizzare questo progetto e i tanti altri che tutte le organizzazioni portano avanti.
Riusciremo mai a far emergere la bellezza degli aspetti umanitari? Riusciremo a scegliere di seguire solo i media che hanno una buona alchimia tra fatti, realtà e visione?
*ispirato da un articolo dell’huffingotn post sul ministro dell’economia greca Varoufakis.
Carissimo Giovanni,
per me incontrarti in Afghanistan è stato meglio di prendere una boccata d’aria, è stato come riconoscere che c’è, nel sottofondo di tanto dire, un fare che ancora sa riconoscere la farina dalla crusca.
Bello sentire che il tuo lavoro ha fatto la differenza, si può fare bene e sono soddisfazioni in tanta fatica per realizzare queste attività.
Per me sei un esempio con tanta esperienza e professionalità, i consigli che mi hai dato ho cercato di seguirli.
Il coraggio di avere paura, che grande cosa! Grazie.
Nell’ultimo viaggio che ho fatto dopo che ci siamo conosciuti, avevo due classi con 112 studenti(di cui 10 studentesse di medicina) e abbiamo fatto un test di psicologia clinica prima e dopo per vedere l’effetto del lavoro svolto insieme. Sulla carta è diminuita la depressione del 43%. Certo sono piccoli passi e la considerazione di un lavoro duraturo va seminato nel tempo.
Ora penso di tornare a Maggio e mostrarli il metodo di lavoro che ho utilizzato con loro per far si che possano creare gruppi di supporto dappertutto.
Grazie ancora Giovanni e spero di rincontrarti presto con felici notizie e con questo panorama umanitario, se non ritornato ai bei tempi di cui mi parlavi, almeno scremato di tanto superfluo.
Un caro saluto
Alberto
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Caro Alberto,
sono contento che tu stia bene ed anche, a giudicare dalla foto, con qualche chilo in più rispetto al periodo afgano.
Sono Giovanni Tundo, il medico italiano con cui sei venuto in contatto nel campo militare.
Ho portato a termine un progetto per introdurre la chirurgia laparoscopica in Afghanistan, facendo venire 2 chirurghi di Herat a Bari per 2 mesi e facendoli imparare questa tecnica, assolutamente assente in Afghanistan. Ora hanno fatto più di 200 interventi ad Herat. Non più morti, non più infezioni, non cicatrici spaventose. In Europa è in uso da almeno 20 anni, La degenza ospedaliera si riduce da 15 a 2-3 giorni. In Italia 2.
Tutto a livello volontaristico, mio, della docente, dei medici afgani. Per un progetto che a mio giudizio, in campo strettamente sanitario, è stato quello più utile per l’Afghanistan, facendogli fare un salto di know-how di almeno 20 anni.
Ho cercato di coinvolgere il MAE, mi hanno detto bravo, ed alla via così!
Ma c’è un vecchio detto dei Templari che dice: “Quando la paura bussa alla porta, nessuno dei presenti va ad aprire: solo il coraggio apre la porta, e non trova nessuno.”
Saluti
Giovanni
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