La luce entra dalle finestre di un giorno nuvoloso, il vento la trasporta fino al brivido che fa tremare la mia mano, che la spinge a librarsi su un foglio. Bianco.
Cornacchie grigie, corvi imperiali e cincie di ogni tipo.
Non vedo l’upupa, anche se il suo canto si sovrappone alle voci di questo bosco verticale nella tuscia viterbese.
Satie suonato leggero, fa da sottofondo ai canti che aleggiano nell’aria.
C’è silenzio e intensità dentro di me.
Un acero campestre, un ginepro e erba tra piastrelle di tufo. Ma c’è un albero ai piedi del bosco, e sono stato a guardarlo per giorni mentre il chiacchericcio delle foglie dava colore al suo fusto fermo, immobile. La luce del sole splende ora la parte argentea delle sue foglie. Vive in un interminabile evoluzione, eppure, immobile. Ascolto con dolcezza. Ci sono piccioni anche quie colombacci a volontà.
Le rondini creano una festa nel cielo.
Una mosca sul tavolo, una formica sul muretto. Una luce accesa e un numero, il 265. Il mio sguardo si posa aldiquà del bosco, sulla pietra, tra i ciuffi d’erba.
Scorre il vento qui nel canyon, le cime degli alberi si muovono, tutto vive di vita propria, in un suono univoco. Le nuvole spumano nell’aria lentamente. Quell’albero, quell’indeterminato albero, è lì. Tutto è presenza e assenza.
Una musica soave ed eterno silenzio.
Tra una voce della luce e un’altra, un leggero tepore mi scalda le membra.
Divenire essere, divenire cosmo.