Dopo aver accompagnato Lorella stamane a lavoro, con la fiat grigio topo ho proseguito verso il Ticino. Sono entrato nel parco adiacente al fiume e a piedi sono entrato nei boschi. Il sole piano piano si è alzato e ha iniziato a scaldare come non succedeva da parecchi giorni. Ho visto famiglie intere di cinciarelle appese a testa in giù ai rami, stando ad ascoltare immobile il loro canto ritmato e squillante. Sono buffe con quella pancia cicciotta. Poi merli, cornacchie grigie a volontà e un airone rosso che se ne stava con i piedi ammollo in un ruscello, aspettando eretto un pesciolino da inghiottire. C’erano anche tantissime orme di mammiferi, anche se non ne ho visto uno, nemmeno un nutria… Camminando ho trovato una casetta di un club di cannottieri con un orologio solare e sotto inciso: “Il tempo è come l’acqua del ruscello, non torna mai indietro.” Mi ricorda Eraclito. Mi ricorda anche il tempo biografico, il tempo del corpo. Vado indietro nel tempo e mi viene in mente il tempo della violenza sul corpo. Da bambino non era raro di essere picchiato da mio padre, Antonio. Se una cosa che facevo non la tollerava, mi dava sberle molto forti, piangevo. Si alterava per questioni futili, a volte senza senso. Già da bambino non ne capivo il motivo. Tutto nasceva perché un mio atto scardinava un idea di ciò che la realtà doveva essere per Antonio. E’ pazzesco come può essere alterato l’equilibrio di un uomo, con delle stupidate da bambini . Negli anni ci sono state delle “escalation” di violenza, più crescevo e più le botte diventavano forti. A volte usava la cintura, altre il manico della scopa, che vi assicuro può fare molto male in testa. Verso i dodici anni, durante una di queste tempeste emozionali e dopo calci e pugni, lo guardai orgoglioso senza piangere. Fu l’inizio di un periodo di più di dieci anni in cui non piangevo più, neanche al suo funerale. Ci vollero parecchi libri di psicoterapia, psicologia e traumatologia infantile per capire che il mio non era un atteggiamento sano o forte o addirittura libero, ma che era la risposta alle umiliazioni e violenze che avevo subito. Capii che bisognava che facessi uscire tutta la rabbia che avevo tenuto, nascosta a tutti, dentro di me per anni e che aveva creato una corazza apparentemente impenetrabile e insensibile verso ciò che avevo subito. Come se fosse un fatto passato e ormai dissolto, insieme a chi me l’aveva causato. Il suo picchiarmi era pieno di odio e rabbia e probabilmente si pentiva anche, senza dirmelo però, della sua “pedagogia” del terrore. Un giorno litigammo per chi avrebbe dovuto mangiare un arancia a tavola, eravamo solo io e lui. Mi picchiò schiacciandomi con i piedi l’arancia in bocca. Una furia impressionante. In questo momento, mentre vi scrivo, il fischio del suono del silenzio nelle mie orecchie si è fatto più acuto e mi riporta alla Presenza, mi riporta qui, ora, in questo alberghetto con dei fogli davanti. Mi fermo lasciando passare quelle immagini senza che venga opposta in me resistenza, sia conscia che inconscia. Una lieve tristezza mi attraversa. Un giorno Antonio mi minacciò con il coltello da cucina graffiandomi con la punta sulla schiena. Mi chiedo dove avesse preso tutta questa spietatezza che manifestava a volte. E’ come se un mostro si impadronisse di lui, in un certo qual modo era posseduto… Un tossicodipendente di emozioni negative. Un drogato. Lo minacciai più volte di chiamare il “telefono azzurro”. In lui si manifestavano i modi appresi da suo padre , il nonno Alberto, che da vecchio era migliorato, ma da giovane dicevano che era terribile. Molto probabilmente Alberto era stato menato a sua volta suo padre. La storia continua finchè qualcuno non spezza le catene di queste dinamiche, che portano a far nascere odio e rabbia, a fare sentire le persone “vive”, a farli sfogare le frustrazioni senza rendersi conto da dove arrivano. Vittime che diventano carnefici. Si può essere stati vittime di questioni ben più piccole, senza nessuna violenza fisica e senza nessun urlo, ma quelle psicologiche si. Fanno parte di piccole e frequenti follie giornaliere che vengono vissute dalle persone, anche senza scagliarle negli altri, che si auto-feriscono pesantemente. Si autoinfliggono delle pene. A volte siamo noi i disperati esseri umani senza orientamento, senza essere consapevoli di ciò che facciamo e qualcuno è anche senza uno scopo ultimo nella vita. Ci sono momenti nella vita in cui il tempo biografico va guardato con oculatezza, bisogna scandagliarlo bene, è molto facile che ci portiamo dietro dinamiche che abbiamo subito e che non apprezziamo e magari condanniamo ma riproduciamo, anche se non con le stesse modalità. L’orgoglio che avevo mostrato non piangendo l’avevo imparato da Antonio, ma dentro di me mi sentivo diverso da lui, migliore, riproducendo lo stesso modo di pormi davanti alla sofferenza. L’ho visto piangere una volta sola nella vita, quando è morta sua mamma, nel funerale. Piansi anch’io per empatia, era un caso così eccezionale. Sapeva essere anche una bellissima persona Antonio e mi ha insegnato anche molte cose e lo porto nel cuore. E’ stato il mio primo maestro, con tutto il suo essere fallace, controverso e terribilmente umano. Se non illuminiamo con un bel faro il “Mister Hide” che c’è in noi, continuerà a uscire di nascosto senza che a noi ci sia data la possibilità di contenerlo. Le ombre ogni tanto emergono, sta a noi riuscire a guardarle direttamente e via via cercare di danneggiare meno noi stessi e gli altri. Dieci anni fa, sono stato per almeno un anno tutte le sere da solo, andando a ripescare indietro nel tempo biografico quelle terribili immagini di violenza subita e tanto altro ancora. Soffrii moltissimo nel farlo. Fu un vero “purgatorio”. Partii da semplici ricordi di un immagine di quando ero piccolissimo, due o tre anni al massimo, fino all’adolescenza. Spesso rimanevo bloccato , facevo fatica a passare da un immagine a un’altra, venivo come ributtato indietro e il tentativo di ampliare il piccolo film che stavo cercando di riguardare svaniva. Partivano dei chaos emozionali che facevo fatica a gestire, mi sfiancavano. Scrivevo poesie di getto e quando le riguardavo il giorno dopo, mi accorgevo di quanto orrore mi portavo dentro. Poi ho chiesto aiuto e nei laboratori con Lars mi affacciavo in modo più sottile ai residui che queste umiliazioni lasciano sul corpo. Lars diceva, “Il trauma non è nell’evento in sé, è sul corpo.” E’ sul corpo ci sono i segni dei traumi, nei gesti quotidiani, nelle parole. Davanti a un evento che ha caratteristiche simili si manifesta, magari in forme diverse, la stessa dinamica che ci è stata inflitta e che riproduciamo per reazione inconsapevole. Forse alcune dinamiche rimarranno fino alla nostra morte fisica, ma sulla maggior parte di esse si può lavorare, per far si che le generazioni a seguire non subiscano la stessa scelleratezza che abbiamo subito noi, grande o piccola che sia. Ci vuole coraggio, ma se vogliamo un mondo migliore, se veramente desideriamo vivere meglio e con dignità, bisogna cominciare subito. Il tempo biografico non aspetta, procede, il corpo lentamente tenderà a disfarsi, a perdere le sue capacità e a dissolversi. Se essere felici ha un po’ di importanza per noi, bisogna andare a vedere tutte le cose che non ci hanno resi tali. Il perdono vero verso qualcuno, spesso un familiare, nasce solo dopo aver ascoltato dentro di se tutte le cause dei nostri conflitti verso questa persona e dall’aver maturato bene tutti gli aspetti di quella vicenda, ma soprattutto, guardando gli strascichi che ci portiamo dietro. E’ possibile. Si.