C’è un bellissimo sole stamane, il cielo è limpido.
Gli uccelli saltano qua e la, sugli alberi, in terra, alla ricerca di semi e di nutrimento.
I canto dei passeri, qualche gracchiare di cornacchie grigie qua e la. Qualche cane che abbaia e l’intensa aria del mattino d’inverno, quella pienezza che si respira a pieni polmoni.
Scrivo con i raggi del sole che mi battono direttamente sul viso, che scaldano, che nutrono.
Siamo così presi dai mille affari della vita che spesso non ce ne accorgiamo, lasciamo che i mille pensieri ci assalgano, che le preoccupazioni sul futuro o i mille rivoli delle situazioni ancora non risolte del passato ci assalgano.
Difficilmente ci lasciamo andare ad ascoltare questa pienezza che il sole ci da.
Lasciar andare il passato ci dice il cambio del calendario e proiettarsi su un nuovo futuro, il nuovo anno.
Vivere in uno stato di presenza c’induce a rimanere saldi sulle sensazioni che proviamo ora, in questo attimo continuo cangiante; così difficile da acciuffare, così noioso per molti perchè è esente da eccitazione, così semplice da snobbare.
In fondo è così, acciuffare l’attimo e surfarci in mezzo, la pace ad ogni cavalcata dell’onda.
Lo stare attentamente in ascolto interno sulle sensazioni, ed esterno sulle percezioni.
E poi fuggiamo nella valutazione della qualità delle sensazioni e percezioni, mi piace, non mi piace, è bello non è bello e fuggiamo nel desiderio di altro, verso sensazioni e percezioni che possano tingere il nostro presente con la qualità del nostro pensiero ideale.
Mi fermo, mi godo questa percezione del sole e la sensazione calda sul corpo, l’aria intensa, il canto degli uccelli e riprendo il flusso della scrittura, del pensiero che si fa materico, del messaggio di ascoltare la serenità che ci cinge e che con fatica accettiamo.
Pausa, mi lascio avvolgere.
In tutto questo percepire c’è poco pensiero, o meglio, riempie poco quel grande spazio che mi avvolge.
E’ tutto un delimitare di frasi, ma chiudo gli occhi, godo.
Il piacere che si prova è diverso dal piacere mentale, è semplicemente fisico, aconcettuale, materico ed etereo, è della mente nello stesso momento.
La nostra comunità organizzata, specie nelle città, ha messo in piedi un insieme di angoli di separazione. Si è fatto si che si agglomerassero le case, che si ammassassero di cemento gli ambienti e che lo spazio a disposizione per contemplare la natura vegetale e animale spontanea in sè fosse ridotto al minimo: per rendere tutto più funzionale, più efficiente, più addomesticato.
Quindi il gatto che mangia il passero è diventato un tabù, il suo trofeo che vuole condividere con l’uomo con cui vive viene spesso rifiutato come poco conforme.
I giardini sono tutti curati, edulcorati e trattati a tal punto, che si è perso il gusto del bosco, nel naturale selvaggio. Del piacere di camminare scalzi nella natura, di camminare liberamente sotto la pioggia, di vedere quel ciuffo d’erba che spunta dal marciapiede, come parte della natura intrinseca di noi.
E allora si pareggia l’erba, si recidono i fiori poco conformi e si potano gli alberi in modo che siano funzionali al passaggio dell’uomo, rispetto alla sua espressione più sana e maestosa.
Avviene quindi un rispecchiamento che spontaneamente facciamo, in modo più o meno consapevole, verso ciò che ci circonda e ci influisce e condiziona. Se vivo per 10 anni con intorno un ambiente poco propenso alla spontaneità, sarò rigido, bloccato ed ogni qualvoltà una parte di me si manifesterà, specie quella straordinaria, farò in modo di opprimerla, spuntarla, tranciarla e bloccare la possibilità che essa emerga, al di là della sua natura e del bene che mi può fare.
L’istinto, non quello di uccidere, ma quello di far uscire una parte di me che ancora faccio difficoltà a conoscere, viene represso.
Questo boicottamento alla natura, come l’albero che sta facendo spuntare un ramo e viene tagliato perchè poco funzionale, è lo specchio di ciò che nelle città facciamo con noi stessi e quindi pochi, riescono a ritagliarsi uno spazio in cui questa parte selvaggia possa esprimersi liberamente.
Ecco, far uscire (evitando di fare del male agli altri) questa natura selvaggia è quello che ci si aspetta al fine dell’anno, un giorno comandato in cui tutti possono lasciar andare gli istinti più reconditi, in una festa dionisiaca in cui tutto noi stessi è lecito.
Uscire per un attimo da un atmosfera ovattata in cui i nostri gesti, han da essere mediocri per essere accettati e dove il talento che giace in ognuno di noi viene mascherato e recluso per una convivenza conforme, invece di librarsi nell’aria, canalizzato verso il meglio.
In questo modo la comunità godrebbe dell’espressione talentuosa dei suoi appartenenti e si rispecchierebbe, come nell’ascolto di un grande violinista o semplicemente di ogni persona che riesce a dare il meglio di se stessa in quello che fa.
Il sole ora sta per essere nascosto dal pino, è caldo, vivo.
Ricordo il film “Instint” con Antony Hopkins, che mi aveva suggerito Lars, in uno scambio di messaggi in notturna tra la Danimarca e l’Italia.
La fiducia nell’ascolto di tutti questi rami selvaggi, che spunteranno presto verso primavera, l’incanalare quelli più saldi verso una maestosità che sia grande bellezza, è l’augurio che faccio a tutti per il nuovo anno.
Una gazza si è spostata sul pino. Gracchia elettricamente. esco.