Famiglia Nomade

Il cielo è color panna stamane, statico e uniforme.

C’è il rumore della strada, qualche piccione qua e la, l’andirivieni di gente che va a fare la spesa e che sbriga le cose quotidiane.

La biblioteca è silente.

Stamane pensavo ad alcune coppie di amici, a me e alla mia generazione, a quelli nati negli anni 70, tra il ’68 e gli anni di piombo.

Quella generazione che sembrava avesse tutto, o almeno, così dicevano i nostri genitori.

Quella generazione che aveva sempre la carne nel frigorifero, una conquista che i nostri sentivano di avere ottenuto, dopo che a loro era mancata nel dopoguerra.

Quella generazione che poteva accedere ad ogni livello culturale, che si sarebbe potuta imporre nella scala sociale.

Quella generazione che avrebbe potuto essere felice senza intoppi, o almeno, così dicevano i nostri genitori.

Dal loro punto di vista, sembrava ci fosse l’autostrada per il benessere, la garanzia di una vita lontano dallo struggimento.

Tutte quelle conquiste sociali che avevano conseguito, sembrava sarebbero state le piattaforme su cui avremmo potuto planare con agio.

C’era un grande ottimismo sul futuro della mia generazione, una certa sicurezza.

Ora guardo la mia generazione che ha tutte quelle cose che ci avrebbero garantito la pace dei sensi.

Vedo che noi ed io per primo, fatichiamo a mantenere relazioni di coppia stabili, la capacità di tenere insieme le redini di rapporti che superino l’egoismo e si ergano a piccole comunità, che si rinnovino, che crescano.

La famiglia patriarcale e la famiglia nucleare sono quasi estinte.

Stiamo entrando in quella fase diversa dove gli amici sono più parte della famiglia che i legami di sangue stessi. Possiamo accettarlo razionalmente, ma a livello inconscio credo, siamo ancora basati su quei riferimenti che abbiamo introiettato da infanti.

Nello stesso tempo questa famiglia è molto più dinamica, si sposta, viaggia come non mai e si trasforma continuamente.

Amici entrano e amici escono.

E’ diventata una sorta di cosmologia, ci sono pianeti stabili che ruotano attorno con una certa regolarità, vicini e lontani, stelle che vanno e vengono, costellazioni di persone regolari, meteore che passano illuminando il cielo in un attimo e spariscono subito dopo. Poi ci sono i satelliti, quelle relazioni che sostengono questa famiglia, anche se in maniera artificiale. Pensiamo per esempio a certi rapporti di lavoro, necessari, sebbene manchino di quella profonda umanità che si trasmette con lo scambio delle proprie sfighe, attraverso una partecipazione più intima della vita.

Tutta questa tecnologia sociale ci ha permesso di “sentirci” più vicini, anche se a migliaia di chilometri di distanza, facendoci illudere che ciò possa dare linfa alla nostra “famiglia” reale, attraverso questi surrogati d’incontri intellettuali.

La stabilità di questo nucleo comunitario che chiamiamo “famiglia”, si basa unicamente sulla presenza fisica.

Un aspetto che la tecnologia è impossibilitata a sostituire.

L’odore, lo sguardo vivo, il toccare, l’energia di una persona amica vicina, nutre più di un rapporto per telefono o a distanza via social network.

Ci si adagia sulle qualità della persona anche se lontana, dimenticando che la presenza diretta vale più che un rapporto a distanza, anche se idealmente è meno valorosa.

Questo lunge da significare che i rapporti a distanza vanno eliminati (sarei la prima vittima di questo enunciato), piuttosto vanno tenute in alta considerazione tutte quelle persone che ci sono vicine ora, in questo momento, ovunque noi siamo.

Voglio dire che le persone che sono attorno a noi, ora, in questo momento, sono quelle a cui possiamo fare affidamento per davvero.

Sono luci che brillano nella nostra comunità d’appartenenza, anche se “nomade” e temporanea, anche se in continua trasformazione, senza per questo essere effimera.

Rifletto su questo dopo mesi in Afghanistan, dove le relazioni sono stabili e legate perlopiù ad aspetti di sangue, a seguito d’etnia, poi di tipologia di religione(anche se tutte all’interno dell’islam). Sebbene estremamente diverse e per molti aspetti discutibili, queste piccole comunità hanno una consistenza che ci siamo dimenticati.

Dico noi parlando a quelli della mia generazione, come a quelli delle altre generazioni di questa società, la nostra, che deride quei Paesi ai nostri occhi straziati, disgraziati, primitivi.

Di quali occhi stiamo parlando però?

Degli occhi dei giornali che debbono mantenere notizie scandalistiche per ottenere odiens o degli occhi di chi guarda una società diversa dalla nostra senza il pregiudizio, senza la superbia di chi sa quello che è giusto o sbagliato, ma con curiosità?

E’ troppo facile giudicare dalla poltrona di casa…soprattutto condizionati dagli occhi maliziosi di altri, senza neanche rendersene conto.

Per quanto riguarda tenere insieme la comunità d’appartenenza chiamata famiglia, i persiani hanno molto da insegnare.

Nel villaggio globale in cui viviamo ora, nel senso che siamo influenzati da dinamiche che hanno radici di pensiero, comportamento e scelte sociali completamente diverse dalle nostre, abbiamo bisogno di imparare modelli diversi e approcci alla vita che prima non avevamo la necessità di prendere in considerazione.

Il cercare di superare le paure che ostacolano il nostro stare assieme, quelle più insidiose, intendendo quelle d’intensità minore che non sono contemplate negli almanacchi di psicologia e men che meno nelle nostre comunicazioni quotidiane, ci può portare in una direzione; nel rinsaldare la fiducia che si è persa perché il “nemico” che abbiamo dentro è meno visibile che quei nemici che continuiamo a proiettare all’esterno e che sembrano più reali.

Sono l’ultimo che può parlare di come una relazione di coppia si possa mantenere negli anni e ho l’impressione che rischia d’essere ipocrita ciò che sto scrivendo.

Mi sento comunque di poter affermare che la fiducia nella vita e nel prossimo crea una dimensione di fiducia che è riflessa su di noi e che apre mondi di possibilità. E’ uno dei rischi che bisogna correre se si vuole mantenere una certa soddisfazione nelle relazioni con gli altri.

Il mio secondo viaggio in Afghanistan, è stato all’insegna della fiducia.

Sono arrivato da solo dall’Iran via terra e le persone che conoscevo e che mi davano una sembianza di sicurezza erano lontane, a Kabul.

Ho iniziato a fidarmi della prima persona che ho incontrato prima della frontiera e sono arrivato da persona in persona, di cui mi sono fidato e che piano piano ognuno di loro mi ha permesso di aprirmi a mondi, incontri e possibilità che in Europa e in Occidente mi erano state negate.

Ho messo a disposizione quello che sapevo, senza per questo sentirmi superiore e loro mi hanno dato tutto, offerto ospitalità, sicurezza, da mangiare, regali, invitato dappertutto e fatto diventare professore universitario, basandosi sulle conoscenze che avevo senza pretendere quelle carte tanto necessarie nel nostro mondo, sono stato amato(certo platonicamente).

Mi hanno dato fiducia e apertura in continuazione. Mi hanno testato veramente, guardato per com’ero, per come mi comportavo, per come agivo dandomi possibilità che qui mi erano semplicemente escluse, quasi impossibili.

Dare fiducia crea fiducia, è una formula esperienziale che va al di là della matematica: è fisica, umana, reale.

Con molti afghani ci si capiva solamente tramite gesti, con i modi di fare.

Ogni giorno lacrimavo per le soddisfazioni e la gioia che esperivo.

Fidarsi di un afghano è l’ultima cosa che un occidentale potrebbe sentire di fare.

Invitereste un afghano a casa?

La parola afghano in molte persone genera diffidenza, bombe, terrorismo e scontri etnici.

Siamo pieni di pregiudizi sui popoli che non conosciamo direttamente, come rischiamo di essere pieni di pregiudizi nelle relazioni intime che viviamo.

Quella diffidenza, quel terrore, quegli scontri che ci sono nelle relazioni intime ostacolano la possibilità di manifestare il nostro essere vulnerabili, di osservare le paure che si manifestano durante le relazioni più intime e che nascondiamo innanzitutto a noi stessi.

In molte occasioni c’è paura di mostrare le nostre paure.

E come fa la fiducia a nascere, a crescere e saldare i rapporti, se viviamo l’ipocondria di essere quello che siamo?

Mi sento ambizioso, sto facendo di tutto per migliorarmi come persona, per smussare quegli spigoli che vedo fanno male ad alcuni quando sto con loro.

Sto cercando di essere più in linea con quella”idea” di me stesso che ancora non sono.

E in quella danza tra trasformazione e accettazione di se si rischia di cadere dove la confidenza con se stessi scompare…

Bisogna rischiare?

Poi ci si rialza e si continua a vivere, questo momento, così com’è.

Come adesso che io scrivo e tu leggi.

Possiamo riscoprire la serenità che ci può essere se respiriamo piano, se lasciamo andare quell’indurimento che ci viene dai troppi impegni, dai troppi stimoli, dal troppo volere.

Quella serenità che s’infonde quando stiamo vicino a delle persone amiche, nella “famiglia nomade”, tra quelle relazioni che ci nutrono senza necessariamente addizionare la nostra conoscenza e di cui troppo spesso tendiamo a dimenticarci.

Le soluzioni per un mondo migliore sono basate sulla nostra attenzione e focalizzazione su ciò che rende la nostra famiglia nomade un luogo di conforto, di apertura, di amore e di crescita.

Bisogna dare fiducia a questa famiglia nomade.

Essere fiduciosi che quelle relazioni in cui ci si scambia l’intimità, in cui si accede a quell’espansione fisica nell’area centrale del petto, dove avviene quel respiro più profondo fidandosi di questa esperienza fisica di piacere. È vera, è certa.

Riscoprire quella centralità delle relazioni basata sulla comunione delle qualità più nobili che ci albergano dentro e che siamo tanto timorosi di farle uscire allo scoperto.

Quelle esperienze, oltre a essere valori intellettuali, ci fanno stare bene dentro; come l’essere generosi con gli altri, l’essere gentili con gli estranei, il provare compassione per il prossimo anche se sembra un pirla egoista, in fondo soffre anche lui di non riuscire a manifestare la nobiltà che gli giace dentro.

Riusciamo a godere semplicemente della gioia di esistere?

Sissi lo so, sono scappato dalla riflessione sulla relazione di coppia, mi sono sentito per un attimo inadeguato a rispondere a quei problemi che vedo in molte coppie di amici e che dalla mia posizione di single più o meno “psicoconnesso”, potrei giocare a risolvere.

Trovo più onesto scrutare le difficoltà interiori che ognuno di noi ha, con quella grande e piccola comunità che chiamiamo il mondo delle relazioni sociali, da quelle della simpatica famiglia nomade, a quelle più intime che riguardano il tenere la nostra membrana del cuore aperto con l’altro, lo sconosciuto, la comparsa, l’insolito, il mostro, quell’angolo buio di me in cui si fa fatica a trovare rifugio e che ha bisogno di gentile calore. Per dare luce al buco nero, riaccendere le relazioni con gli altri, scongelare quell’angolo buio dove non è più lotta o fuga, ma solo immobilizzazione. Quel luogo che ci fa rimbalzare ad ogni entrata violenta, che ci respinge se evitiamoa di accettare, che ci supplica senza che lo ascoltiamo e che diventa una Grande Risorsa quando gentilmente riusciamo a curarlo con Attenzione.

Sto parlando di me e di te, di quello che facciamo fatica ad accettare di noi stessi e che vediamo nell’altro, perché vediamo nell’altro quella caratteristica, dinamica, modalità che è ancora dentro di noi, facendo fatica ad accettare.

Che ci sia luce, che ci sia calore vero.

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