Questa mattina la sveglia è stata piuttosto sussultante, verso le cinque e mezza ho sobbalzato dal giaciglio per il senso del cambio improvviso di pressione d’aria, la reazione a distanza provocata da una bomba.
A seguito degli spari, si sentono a distanza. C’è una battaglia, che si continua a sentire per circa un ora.
È una bomba e un attacco al consolato americano a nord della città.
Sugli alberi vicino alla finestra, ci sono degli uccelli che cantano e ne è arrivato uno che sento solamente che emette un richiamo da rapace notturno, anche loro si domandano…?! E comunque si comunicano qualcosa.
Mi trovo negli uffici del movimento nazionale giovani afghani, un gruppo apolitico di volontari, dormivo in una stanza, sono solo. Il direttore arriverà verso le otto. Gli altri, volontariamente, a seguito.
È stato così spontaneo trovarmi qui, che quando sono arrivato e ho incontrato jawad tramite amici in Italia, dopo due ore già avevamo organizzato un mini-workshop su paura e fiducia per il sabato a venire.
La situazione certo, essendo così evidente, rende più consapevoli sull’importanza di questi due temi.
Oggi c’era un incontro nella Cooperazione Italiana con una delegazione italiana governativa, l’ambasciatore e rappresentanti di varie ong. Mi avevano chiesto di fare presenza. Dopo lo scoppio qui sono partiti i protocolli di sicurezza e avranno chiuso la delegazione in un bunker, aspettato che la guerriglia finisse, che controllassero l’area con gli elicotteri e i vari sistemi tecnologici e poi alle otto ho sentito un aereo che partiva e che probabilmente era il loro. Naturalmente, il pranzo-incontro è saltato.
Il governo và, l’emergenza resta.
Le delegazioni dei governi che arrivano in posti come questo sono quasi sempre dei marziani.
Intanto mentre vi scrivo si sentono gli elicotteri che attraversano il cielo da varie direzioni, un leggero traffico delle macchine(anche perché è venerdi) e qualche uccellino qui fuori.
Najib, un amico di Jawad che lavora per la sicurezza in una ngo americana, ieri sera al nostro passaggio in una strada della città, mi racconta che il giorno che i talebani se ne sono andati, lui arrivava con una carovana di mezzi dal confine iraniano e in quella strada si sono trovati nel bel mezzo della battaglia della cacciata.
Si sono salvati tutti, ma hanno strisciato tra un riparo e l’altro, veramente come dei vermi, tra due fuochi (che ognuno a loro modo cerca di “salvarti”…).mi dice che ogni volta che ritorna in quella strada gli viene in mente quell’evento. Quanti traumi viaggiano in questo questo paese? che cosa rimane a un popolo dopo aver vissuto tutto ciò?
Mi ricorda le storie dei nostri nonni sulla seconda guerra mondiale o quelle dei più vecchietti che ci raccontavano la prima. Quella loro forza e coraggio di ricostruzione, con quelle ferite difficili a capirsi.
Gli uccelli qui cantano ancora, il sole trafigge le finestre, il cielo è limpido e c’è ancora un residuo di quella fresca brezza del mattino.
200 partiti politici, più di 7 lingue, una sola nazione. Afghanistan.
Mi sembra di essere nel 1860, il periodo dell’unificazione dell’Italia. Tutto ciò che riesce a fare un Paese diventa pedagogicamente corretto. Il calcio fa miracoli in questo e l’altra sera quando per la prima volta nella loro storia l’Afghanistan ha vinto una coppa internazionale, quell’entusiasmo, quell’esperienza dionisiaca, quel delirio collettivo che ha trasportato tutti fuori dalle differenze facendoli ballare per strada e gioire, esultare, cantare ma soprattutto unire; da quella spinta che sui banchi di scuola non si trova. Il bisogno di una dignita nazionale passa necessariamente per l’orgoglio.
Mi affascina pensare a quanta creatività e quante belle idee si realizzeranno in questo periodo di ricostruzione. Ci sarà spazio per tutte, certo…