Piove qui a Palenque, nel Chiapas in quel sud del Messico tropicale. Giorni intensi di ascolto. Arrivato per celebrare una storia antica, una leggenda o una premonizione. Le rovine di un mondo Maya che non si estingue, sono attraversate dalla sete, quella stessa sete che giace in ciascuno di quelli che non abbeverano gli altri, un amato, un amata. La notte prima del solstizio del 21 dicembre, dí di grandi celebrazioni e avvenimenti c’è stata un alluvione che non vivevo da molto. Nell’accampamento nella giungla dove avveniva il raduno in cui stavo, c’è stata una grande paura, dalla mezzanotte del venti secchiate d’acqua cadevano ininterrottamente e tutti cercavano riparo sotto un telone di plastica, in qualche buona tenda, o semplicemente sotto l’acqua… Io ho trovato un semi riparo sotto un telone con una ventina di persone, anche se i fiotti schizzavano dentro. C’era Leon, un chitarrista di musica classica contemporanea che ha suonato per 6 ore di fila a volte alternato da Prem con cui ero arrivato, che suonava con un Sax soprano. Poco spazio per le parole, si viveva intensamente quei momenti. La musica dell’acqua e la musica dell’uomo. Appena accanto il fiume che saliva e che piano piano si sbarazzava delle tende azzardate vicino alle sponde, decine di sfollati, confusi, terrorizzati. La mattina alle 4 ci sarebbe dovuta essere una meditazione collettiva, un ritrovo di silenzio di gruppo. Ci è stato dato da madre natura, con uno spirito totalmente differente. Tutti gli artifici rituali, quelli alle rovine antiche, quelli del raduno o quelli in qualsiasi parte del mondo che avrebbero potuto essere interessanti, si sono dissolti dentro me, purificati dall’acqua. Alluvione. Vivere un alluvione è diverso da guardarla dalla finestra, mostra l’intensità alla quale siamo esposti, la fuerza de la naturaleza che ci circonda, immensamente. C’era il rischio che il fiume si portasse via anche la mia tenda, con tutte le cianfrusaglie che mi porto appresso, il fondo di soldi e questo aggeggio elettronico da cui vi scrivo. Quella sera mi ero portato con me uno zainetto, avevo la coperta mongola, una moleskine nera, una biro pilot blu, dell’acqua, spazzolino e dentrificio ayurvedico, il portafoglio, un sapone e quella sensazione che quella sera avrei potuto dormire e andare ovunque, avevo tutto ciò di cui avevo bisogno. Non andai lontano per la verità, o almeno, solo con l’immaginazione. Quanto mi importavano le cose che stavano nella tenda, a che cosa mi servivano veramente? La risposta che mi do adesso, dopo una quindicina di giorni, e che mi servono per colmare il vuoto interiore che a volte sento. Ora è uscito il sole che trapassa le foglie gigantesche che stanno di fronte a me e sfronda tra il chiacchericcio di esse. Il vento le muove, le sospinge, gli dà carica. L’aria all’ombra è pulita, umida e penetrante. I raggi che trapassano scaldano il corpo come la presenza di un fuoco. Muoversi e muoversi per incontrare fenomeni nuovi, per provare e provarsi, ma non per fuggire da se stessi, è impossibile. L’amore verso le persone care rimane, a volte piû intenso, a volte fievole. E ci sono persone che rimangono nel cuore, anche se non le vedi, anche se sono a migliaia di chilometri di distanza. Si potrebbe anche far finta che non sia cosí, ma si manifesterà la presenza in un sogno, in un costante pensiero quotidiano, anche solo per pochi minuti. E tutto ciò sembra rimanere in un mondo chiuso dentro chi lo vive; sembra, anche se per me è come se ogni volta che pensiamo a qualcuno, in qualche modo lo senta, ne riceve una vibrazione, una istantanea connessione. Vicini, lontani. Il sole si è alzato e già da il sentore che una giornata si sta elevando. L’aria è piû calda, il cuore è piû sollevato, la luce irradia ogni spazio d’ombra e lo illumina. Siamo io e te che leggi, insieme, per un attimo.